Lia Tagliacozzo è nata nel 1964 a Roma, dove ha vissuto quasi sempre. Fin da quando era bambina ha desiderato scrivere e viaggiare. Esperta di cultura ebraica, scrive di storia, letteratura, attualità, identità e memoria. Ha lavorato nel settore culturale delle istituzioni ebraiche e presso giornali e televisioni (tra cui “il manifesto” e “Confronti”, e la redazione di “Sorgente di vita” di Rai 2) con particolare riferimento all’ebraismo e alla Shoah e con una attenzione specifica alla divulgazione. Per questo, da anni, va in giro per le scuole di tutta Italia a raccontare le storie dei suoi libri. Ha scritto per adulti, bambini e adolescenti. Per Einaudi Ragazzi ricordiamo: Il mistero della buccia d’arancia: una storia di affetto, di vita e di memoria civile e La Shoah e il Giorno della Memoria.
Con Castelvecchi nel 2005 ha pubblicato Melagrana. La nuova generazione degli ebrei italiani; per Manni nel 2020 è uscito La generazione del deserto. Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia.
Fonte immagine: Edizioni EL-Einaudi ragazzi.
Lia è ebrea, figlia di due sopravvissuti alla Shoah. Quando nel 1938 vennero promulgate le leggi razziali, i suoi genitori erano bambini: durante le persecuzioni il padre si salvò per caso da una retata e restò nascosto in un convento per tutti i mesi dell’occupazione, la madre si rifugiò in un casolare di campagna e poi, dopo la fuga attraverso le Alpi, in un campo di internamento in Svizzera. Ma di tutto questo a casa di Lia si è sempre parlato poco. E lei, da sempre, ha tentato di ricostruire la storia della sua famiglia cucendo insieme le poche informazioni, riempendo i buchi della memoria, indagando tra le omissioni e le rimozioni. Ha scritto tanto, negli anni, trasformando in romanzo le vicende degli ebrei italiani, e ora ha deciso di raccontare la propria storia.
Cos’è una “Pietra d’Inciampo” ? Si tratta di una piccola targa in ottone (10 x 10 cm) a scopo commemorativo posta su un sanpietrino, che l’artista berlinese Gunther Demning installa in tutta Europa davanti alle case in cui le persone arrestate dai fascisti e dai nazisti vivevano. L’iniziativa, diffusa ormai in 17 paesi europei, è partita a Colonia nel 1995 e ha portato all’installazione di oltre 45.000 “pietre”, anche in Italia, come per esempio a Roma, Genova, Livorno, Prato, … Le Pietre d’Inciampo sottolineano il carattere capillare della deportazione, il legame di tutte le nostre città con i campi nazisti di concentramento e di sterminio, svelano spesso una collaborazione da parte dei fascisti locali, e, soprattutto, danno nome e luogo ad una persona. Ritorna la vita che c’era prima dell’assassinio
Le persecuzioni in Italia
In Italia la persecuzione antiebraica fu fortemente voluta da Mussolini e le leggi razziali del 1938 furono emanate ben prima dell’occupazione tedesca del 1943; i cittadini ebrei furono quindi perseguitati prima dal fascismo e poi anche dal nazismo.
La persecuzione fu infatti articolata in due momenti: la “negazione dei diritti” degli ebrei prima che ebbe luogo tra settembre del 1938 e luglio del 1943 e la “persecuzione delle vite” degli ebrei che iniziò l’8 settembre 1943 con l’occupazione tedesca.
Durante il primo momento la legislazione antiebraica dell’Italia fascista ebbe una forte impostazione razzistica-biologica e poco religiosa: furono perseguitati tutti coloro che avevano ascendenti della cosiddetta “razza ebraica” indipendentemente dal loro credo.
Seguendo questa logica il censimento dell’agosto del 1938 contò circa 51.100 gli ebrei soggetti alle discriminazioni. Tra questi ce ne furono molti pochi che vennero considerati esenti per particolari “benemerenze” di ordine bellico, politico, o di altro “eccezionale” tipo (secondo il provvedimento noto con il nome fuorviante di “discriminazione”).
Con l’emanazione delle leggi razziali ebbe effetto immediato la revoca del permesso di residenza agli ebrei stranieri e già nel giugno del 1940 – quando l’Italia entrò in guerra – circa metà di essi aveva già lasciato il paese. Quelli che erano ancora rimasti vennero rinchiusi in campi di internamento, in attesa della conclusione del conflitto. Fino al 1943 l’internamento consistette nella “sola” prigionia senza l’aggiunta di violenze fisiche o morali antisemite.
Se la soluzione per gli ebrei stranieri fu inizialmente l’espulsione e poi l’internamento, il Fascismo non fu più morbido con i suoi stessi cittadini per cui aspirava comunque a una soluzione espulsiva che si accompagnava con lo smantellamento della rete sociale esistente tra ebrei e non. Fu così che l’azione governativa si impegnò nell’eliminazione degli ebrei dalla vita nazionale, nella separazione tra ebrei e non ebrei e nella spinta all’emigrazione. Tra le altre cose gli ebrei furono espulsi dalle cariche pubbliche ma anche dagli impieghi privati e libere professioni, i matrimoni considerati misti vennero vietati, agli ebrei era impedito di avere sottoposti ariani e furono allontanati dal lavoro e dall’istruzione.
I ministri dell’Educazione nazionale e della Cultura popolare realizzarono nei rispettivi ambiti un’arianizzazione che può essere definita totalitaria. Nelle scuole e nelle università vennero adottate le seguenti principali misure: esclusione (tradotta in espulsione dei già presenti e divieto di nuovi accessi) degli studenti, esclusione degli insegnanti e bando dei libri di testo di autori “di razza ebraica” – anche se in collaborazione con autori “di razza ariana” – nonché di quelli contenenti riferimenti al pensiero di ebrei morti dopo il 1850. Gli editori cessarono quasi completamente di pubblicare nuovi libri di autori ebrei, mentre quelli già editi vennero sequestrati o lentamente ritirati dal commercio e sottratti alla consultazione nelle biblioteche. Autori, concertisti, cantanti, registi, attori, etc… Vennero progressivamente esclusi dalla radio, dai teatri, dai cinema e dai cataloghi discografici. Pittori e scultori non poterono più allestire mostre. La normativa si sviluppò in tutti i comparti della società, determinando una sorta di ghetto, del tutto immateriale ma concretamente esistente.
L’8% degli ebrei italiani allo scoppio della guerra era già emigrata.
Nel maggio 1942 il Fascismo assoggettò alcune migliaia di ebrei al lavoro obbligatorio (noto anche come “precettazione”) e, nel giugno 1943, decise di riunire gli ebrei validi in quattro veri e propri campi di internamento e lavoro obbligatorio.
Quando il 25 luglio 1943 fu destituito Mussolini, nel successivo periodo dei “quarantacinque giorni” le leggi antiebraiche non furono né annullate né aggravate. L’8 settembre fu annunciato pubblicamente l’armistizio e l’Italia si trovò divisa in due parti, separate dalla linea mobile del fronte. A sud gli alleati e al centro- nord la Repubblica sociale italiana con sede a Salò e l’occupazione nazista.
Nell’Italia occupata c’erano circa 43.000 persone considerate di “di razza ebraica” che subirono le persecuzioni antiebraiche tedesche che iniziarono subito dopo l’8 settembre 1943. La sezione di polizia specializzata nell’arresto degli ebrei ricevette l’ordine formale di applicare al territorio italiano le misure in atto negli altri paesi europei poco dopo la metà di settembre 1943, ed effettuò le prime azioni sabato 9 ottobre a Trieste e (rivelatasi impossibile un’azione a Napoli) sabato 16 a Roma. Al rastrellamento nella capitale fecero seguito quelli attuati tra fine ottobre e inizio novembre in Toscana, a Bologna e nell’area Torino-Genova-Milano. Età, sesso e condizioni di salute delle vittime non costituirono mai motivo per eccezioni o esenzioni.
Il 14 novembre 1943 a Verona l’assemblea del nuovo Partito fascista repubblicano approvò un manifesto nel quale si stabiliva che: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.
Il 30 novembre il ministro dell’Interno diramò l’ordine di polizia che disponeva l’arresto e l’internamento di “tutti gli ebrei, […] a qualunque nazionalità appartengano” e il loro internamento “in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati”, insieme al sequestro di tutti i loro beni
Quando – dal 1 dicembre del 1943 – iniziarono i primi arresti, i campi di internamento provinciali vennero improvvisati anche in carceri o edifici delle comunità ebraiche stesse.
Tra i corpi che contribuirono agli arresti vi erano anche quelli che controllavano il confine con la Svizzera. Fiero dei cinquantotto arresti eseguiti “dai primi di ottobre ad oggi” e dei “rilevanti valori” sequestrati in tali occasioni, il 12 dicembre 1943 il comando della II legione “Monte Rosa” della Guardia nazionale repubblicana confinaria scrisse al capo della provincia di Como: “E’ così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica – rifugio di rabbini – tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi Fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie della Guardia Nazionale Repubblicana che indefessamente, su tutti i percorsi anche i più rischiosi, con qualsiasi tempo ed in qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda”.
Gli ebrei arrestati dai tedeschi e dagli italiani vennero raggruppati in carceri o campi della penisola e poi deportati dai tedeschi nel campo di Auschwitz, con convogli diretti o con tappa intermedia nei campi di Reichenau e Drancy, rispettivamente in Austria e Francia.
Inizialmente i convogli partirono dalle località degli arresti; dal febbraio 1944 cominciarono ad essere utilizzati i campi nazionali di concentramento di Fossoli di Carpi, di Bolzano-Gries e della Risiera di San Sabba. Gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli (poi a Bolzano-Gries), i tedeschi prendevano in consegna e deportavano ad Auschwitz (svuotando il campo italiano) in un ciclo continuo.
Il campo di Auschwitz–Birkenau era stato destinato a dare la morte agli ebrei ivi deportati dai territori dell’Europa occidentale; le uccisioni vi iniziarono nel 1942. La maggior parte dei componenti dei convogli veniva immediatamente “selezionata” per essere uccisa nelle camere a gas; una parte assai minore veniva immatricolata, tatuata, immessa nel campo, assegnata a un lavoro, e portata a morire per malattia, denutrizione, spossamento e uccisioni aventi varie motivazioni.
Circa 500 perseguitati riuscirono a passare la linea del fronte e a raggiungere le regioni liberate.
Oltre 5.500 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera.
Oltre 7.800 vennero arrestati nella penisola
Di essi, 300 furono uccisi in Italia e oltre 7.500 deportati; di questi ultimi, sono noti nome e destino solo per 6.800: oltre 5.900 uccisi e oltre 800 sopravvissuti.
Le altre 29.000 persone classificate “di razza ebraica” vissero in clandestinità fino alla Liberazione, protette da altri perseguitati o – più spesso – da non ebrei (oggi denominati “Giusti”); di esse, un migliaio partecipò alla lotta partigiana.
Questa fu in sintesi la persecuzione antiebraica attuata in Italia dal 1938 al 1945.
Già dal 1942 Mussolini ebbe notizie parziali sulle deportazioni e sulle uccisioni degli ebrei, in atto nel continente già dall’anno precedente, per circa un anno l’Italia fascista non collaborò alle deportazioni e ai massacri, ma mantenne salda l’alleanza militare e ideologica con la Germania nazista. Riguardo ai rastrellamenti e alle deportazioni nell’Italia occupata non è documentata alcuna protesta di Mussolini presso le autorità del Terzo Reich. Sono invece documentate sue proteste relativamente all’incameramento tedesco dei beni degli ebrei del litorale adriatico.
Conoscere, comprendere, ricordare, e rifiutare antisemitismo, pregiudizi razziali e intolleranze, sono oggi un impegno per tutti noi.
Immagine 1: Cartolina postale inviata a Italia Del Monte internata a Fossoli e, in un secondo momento, deportata e uccisa ad Auschwitz– Per gentile concessione del Museo Ebraico di Roma – Foto di Giorgio Benni.
Immagine 2: Biglietto consegnato dai nazisti agli ebrei da arrestare durante la razzia del 16 ottobre a Roma – Archivio privato di Ranato Di Veroli
Info sull'autore