Racconto di Nina Pintori
Nell’ultima guerra mondiale devastazione, miseria e morte hanno distrutto genti e città in maniera totale.
La fame, soprattutto tra i ceti più poveri, era portatrice di malattia e decessi. Ma molte persone, abituate a disagi di ogni sorta, si adattarono e tirarono avanti con quello che la natura offriva in termini di erbe commestibili e cacciagione. Specialmente noi in Sardegna, gente ingegnosa, arguta e operosa.
La storia che sto per raccontarvi ebbe luogo a Nuoro, proprio in quest’epoca.
Era l’inizio di primavera, tutto si risvegliava, la natura era lussureggiante e verdissima, ma nelle case della povera gente si faceva fatica a tirare avanti. Le famiglie più numerose non avevano di che sfamarsi, le madri erano sempre preoccupate non avendo niente da offrire ai propri bambini, così cercavano di aguzzare l’ingegno per procurare almeno il necessario giorno per giorno.
Nella cucina di una casa, una mattina, il fuoco acceso a fiamma viva contribuiva a scaldare il povero ma dignitoso ambiente. Le pentole erano vuote, non si sentiva nessun odore che facesse pensare a un pranzo per consolare i cuori.
Barbara, la figlia maggiore di questa numerosa famiglia, era colei che più sentiva la responsabilità di aiutare la madre in qualche modo. Le chiese quindi cosa potessero inventarsi quel giorno per sfamare tutti.
La madre, dopo aver percepito la preoccupazione della primogenita, che nonostante fosse ancora piccola si poneva questi problemi, disse: “Non ti picches pessamentu, fiza me, poneche una padedda de abba in su focu, deo torro deretta.” (metti una pentola d’acqua sul fuoco, io torno subito)
Uscì di casa con un grande grembiule, sa franda, e si dileguò nel viottolo stretto che dall’abitato portava in campagna. Lei conosceva quei posti a menadito, e dopo aver chiuso i due lembi estremi del grembiule in vita, creando una sorta di tasca, si avviò in mezzo ai cespugli.
Aveva con sé una lesorjedda (coltellino) che usava per raccogliere su frinuccheddu sardu (finocchietti selvatici), profumatissimi e teneri, ancora bagnati di rugiada, e riempì la sua franda finché poté. Tornata a casa, con la figlia ripulì, lavò e tagliò la sua verdura.
L’acqua nella pentola aveva preso bollore ed era pronta ad accogliere le verdure per lessarle, ma a questo punto, dato che l’idea era quella di fare delle frittelle, mancavano le uova.
Oggi si butta tutto, ma allora non si buttava niente. In ogni casa quando si consumavano le uova e si usava solo il tuorlo, l’albume si conservava in barattoli di vetro, veniva messo al fresco e all’occorrenza veniva dato in prestito alle famiglie che l’avrebbero restituito in seguito.
Barbara, intanto che i finocchietti borbottavano in pentola, spandendo ovunque un profumo che pareva di anice, disse: “Non abbiamo neanche un uovo.” E la mamma, a pronta risposta: “Vai dalla signora tal dei tali, e dille che dobbiamo fare i bianchini per il battesimo di Rosalba, e se per favore ti può prestare un barattolo di albumi, che restituiremo appena possibile.”
Barbara, che non sapeva mentire e si vergognava, non voleva andarci, ma subito vinta dalla necessità uscì, tornando poco dopo a casa col prezioso recipiente colmo di albumi, l’ingrediente che avrebbe contribuito a sfamare tutta la famiglia insieme ai finochietti.
La mamma Mallena si era ingegnata a procurarli senza alcun soldo, per sopperire a nutrire la famiglia. Erano proprietari di un oliveto, infatti l’olio non mancava, e neppure la farina.
Così, messa sa sartaghine (la padella) colma d’olio d’oliva sulla tripide (il treppiede), già posizionata sulla brace, e preparato l’impasto per le frittelle, iniziò a friggere.
Tutta la cucina venne invasa di profumi che solo chi conosce può apprezzare.
Riempì una canistedda isterria de papiru ‘e istrazzu (un castino foderato con carta) di dorate e fragranti e ottime frittelle.
Il profumo si sparse lungo quel vicolo lungo e stretto, arrivando a tutte le case, e Mallena fece assaggiare ai vicini il frutto della sua furbizia. Si erano sfamati in molti, senza spendere neanche un centesimo, con quel pranzo frugale ma sempre delizioso.
Questo racconto ci fa capire come la necessità aguzza l’ingegno, in questo caso di una madre che anziché farsi cogliere dalla disperazione ha messo la sua esperienza e intelligenza a favore delle persone a cui voleva bene.
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